Sono i giorni in cui si ricordano l’armistizio della prima guerra mondiale, nella quale sono stati milioni i soldati morti e invalidi permanenti.
Anche mio nonno Giovanni fu arruolato dopo la sconfitta di Caporetto, nonostante fosse vicino ai trent’anni, figlio di madre vedova, sposato con una figlia appena nata e unico lavoratore della sua vigna. Prima di partire andò, già in divisa da bersagliere, in uno studio fotografico con la madre e la moglie per lasciare un ricordo.
Portò con sé al fronte un piccolo quaderno con la copertina nera, su cui segnò le tappe del suo trasferimento al fronte e la brutta copia delle lettere che scriveva alla madre e alla moglie, dove diceva che stava bene nonostante gli spari e commentava il prezzo a cui le due donne avevano venduto il vino dell’annata. Teneva i conti come se fosse a casa e dava consigli su cosa fare “siete donne, ma avete una grande responsabilità”. La trincea era un brutto posto e Giovanni scriveva sul suo quadernino le sue paure e il suo rifiuto della guerra.
Non si trovava con i “napoli”, di cui non capiva il dialetto, e stava con i piemontesi. Era più vecchio dei soldati di leva e non provava nessuno slancio bellico. Poi un giorno scrisse con una calligrafia più evidente del solito Finalmente sono stato ferito a una gamba: finalmente, dopo la degenza all’ospedale di Vicenza, sarebbe ritornato a casa per occuparsi della vigna e della famiglia. Era contento, anche se temeva di rimanere un po’ zoppo. Invece fu mandato a fare l’autista nell’arsenale di Genova. Poi la febbre spagnola lo stroncò prima della fine della guerra. Obbedì agli ordini senza diventare un eroe.